La prima carità è l’educazione. In Sierra Leone passando da Calcinate

Berton alla Traccia

È morto ieri sera a Parma presso la Casa generalizia dei Saveriani p. Giuseppe Berton, missionario  in Sierra Leone, responsabile educativo del Family Homes Movement, che si occupa da cinquant’anni dei bambini di strada e degli ex bambini soldato abbandonati al loro destino.

 La scuola La Traccia partecipa al dolore della Chiesa per la sua scomparsa.

Grati per averlo incontrato e aver collaborato con lui  all’opera di Gesù nella storia, testimone di una fede che salva e compie l’umanità di ognuno attraverso l’opera dell’ educazione, domandiamo al Signore di ricompensare per l’eternità la sua testimonianza missionaria e di renderne noi consapevoli  imitatori.

Per un profilo di Padre Berton pubblichiamo l’articolo apparso sulla rivista Tracce nel marzo 2003.

Dieci giorni a Freetown

Franco Nembrini

Diario di viaggio

 

Da Rimini alla Sierra Leone, passando per Calcinate: è questo il percorso di una amicizia nata da padre Berton che ha portato prima un suo collaboratore in Italia per un anno, poi due coniugi nella capitale africana. Dove tra la miseria e i resti della guerra è possibile imbattersi in una speranza di vita diversa
Un anno e mezzo fa, al Meeting di Rimini, ho conosciuto padre Bepi Berton, il padresaveriano che in Sierra Leone ha creato un centro per il recupero dei bambini-soldato, e che mi ha chiesto la disponibilità a ospitare per un anno uno dei suoi giovani collaboratori. Così il 3 gennaio 2002 è arrivato in Italia Ernest Sesay, e siccome in Africa l’idea di “programmare” una qualsiasi azione proprio non ce l’hanno, è atterrato a Malpensa senza che noi lo sapessimo, in calzoncini corti e maglietta, con temperatura esterna a zero gradi, senza saper spiaccicare una parola in italiano. Lo abbiamo fortunosamente recuperato, rifocillato, vestito e messo a dimora fissa presso una famiglia di agricoltori di Calcinate, nella bergamasca. Ernest (28 anni, laureato in non si sa bene cosa, fresco di nozze e in attesa di un figlio che è nato dopo un mese dal suo arrivo in Italia) si è rivelato un ragazzo straordinario: dopo tre mesi parlava perfettamente l’italiano, si è inserito nella vita della scuola con assoluta cordialità e naturalezza, entrava nelle classi elementari, amatissimo dai bambini, a insegnare l’inglese. Ma la cosa che mi ha più colpito in lui è stato lo stupore e l’apertura con cui da subito ha guardato all’esperienza del movimento che andava incontrando. Quando è ripartito per la Sierra Leone, il 23 dicembre scorso, ha insistito perché lo andassi a trovare, e così, io e mia moglie abbiamo deciso di raggiungerlo durante le vacanze di Natale (convinti anche dal fatto che Ernest mi aveva giurato che ci avrebbe ospitati in un albergo a 4 stelle!).
Impatto sconfortante
Partiamo da Malpensa alle 7 del mattino del 26 dicembre e atterriamo all’aeroporto di Freetown alle 7 di sera. L’impatto con l’Africa è piuttosto sconfortante (almeno per uno come me che non ha mai visto niente): buio totale, si deve aspettare una navetta che ci porti in città, ma non si sa se e quando arriverà, una massa impressionante di bambini anche piccolissimi, che mendicano o cercano di vendere un po’ di frutta, o di acqua, o chincaglieria varia. E un odore acre, amaro, di miseria e di copertoni bruciati, che ci accompagnerà per tutta la permanenza in Africa. Lì bruciano continuamente tutto, e tutto insieme, così che una nuvola di fumo grigio e puzzolente sembra essere il segno indicativo della presenza umana, in città come nella foresta dell’interno.
Arriviamo finalmente al Centro Saint Michael, nella periferia di Freetown, e scopriamo che si tratta del famoso albergo a 4 stelle dove saremo ospitati: era effettivamente un discreto albergo prima della guerra che ha sconvolto il Paese negli ultimi 15 anni, padre Berton lo ha recuperato con l’aiuto dell’Avsi e ne ha fatto il Centro sede del suo movimento, il Family Homes Movement, qualcosa di molto simile alla nostra Associazione Famiglie per l’Accoglienza, oltre che centro di recupero dei bambini-soldato, subito dopo la fine della guerra. Lì ci troveremo benissimo, per l’accoglienza cordialissima di Berton, di Ernest, e di tutti i loro amici, ma l’impatto è duro: condizioni igieniche un filino precarie, luce elettrica dalle 19 alle 22 e poi tanti saluti. Perché in Sierra Leone non esiste rete elettrica: l’elettricità c’è solo dove qualcuno ha trovato i soldi per comperare in Europa un generatore a gasolio. Dopo due giorni si rompe l’acquedotto centrale, che vuol dire niente doccia, niente acqua per lavarsi le mani: per lavarci abbiamo poi trovato il modo di scendere alla spiaggia dove alcune strutture turistiche (quel che ne è rimasto) consentono di fare la doccia all’aperto. In compenso si mangia benissimo: il cuoco del Centro, che ha imparato il mestiere cucinando per gli italiani che hanno costruito la diga, prepara pane fresco tutti i giorni, normalmente si va di spaghetti e pesce, non mancano vino, parmigiano e perfino grappa rigorosamente veneta. Del resto in città si possono trovare generi alimentari francesi e italiani (dalla pasta alla nutella) sia pure ai prezzi proibitivi imposti dal rigido monopolio dei commercianti libanesi.
Immensa baraccopoli
Comunque sono stati 10 giorni meravigliosi, trascorsi passando di stupore in stupore per quel che Dio opera anche in condizioni umanamente così difficili. La città è un’immensa baraccopoli, dove si sono rifugiati, per sfuggire alla guerra, la metà degli abitanti della Sierra Leone, quasi 2 milioni e mezzo di persone. L’impressione che si ha girando per il Paese è che tutto si stia progressivamente deteriorando: come se l’Africa stesse sprofondando, crollando su se stessa. Colpiscono i “segni” di un decoro che deve pur esserci stato (pezzi di asfalto lungo le strade, case che devono essere state dignitose, mezzi pubblici che devono pur aver funzionato), ma che è come divorato progressivamente dalla miseria e dalla sporcizia. Ed è una miseria che sta diventando cultura: mi ha molto colpito che mediamente gli africani aspettino, seduti, di essere aiutati, anzi pretendano di esserlo. È come se dicessero: noi siamo poveri per colpa vostra, voi siete ricchi per merito nostro, ergo ci dovete aiutare. E questo frena e inibisce ogni responsabilità e ogni iniziativa.
E in questa situazione, veramente una luce nelle tenebre, è il tentativo di padre Berton, che sintetizzo utilizzando le sue stesse parole: «Il Family Homes Movement è un movimento di laici che, in quanto battezzati, hanno titolo ad assumersi la piena responsabilità della loro opera. Cerco di insegnare loro a rendere testimonianza dell’amore di Cristo. Mi convinco della verità della conversione quando si verificano queste due condizioni: che non abbiano più paura delle loro superstizioni, e che sperimentino e diano testimonianza di Dio come misericordia. Deve essere un movimento capace di accogliere tutti, chi dà 100 come chi dà 10, altrimenti la missione si riduce ad una sorta di selezione dei migliori in vista dell’efficienza organizzativa».
E che quello di Berton sia un carisma educativo lo abbiamo constatato in modo impressionante a Bumbuna, villaggio a 200 km nell’interno, dove ha operato per i primi 20 anni della sua presenza in Africa. Ci è venuto incontro l’intero gruppo dei capifamiglia, e Mami Kumba (25 figli, 6 suoi e 19 adottati), la prima madre che lo ha seguito, ci ha accolti con queste parole: «Padre Berton ha rappresentato la possibilità della speranza per me e per il mio Paese. Senza di lui nessuno qui avrebbe potuto sperare». E questo dentro una incredibile mole di opere: scuole in tutti i villaggi dei dintorni, dispensari, centri famiglia, perfino piantagioni, dovunque chiedi chi ha fatto queste cose ti senti rispondere: «PadreBepi».
La felicità della vita
Ma la cosa che mi ha più colpito e segnato è stata la convivenza con Ernest, che alla fine di quei dieci giorni, l’ultima sera, rispondendo alla mia domanda: «Visto che a Bergamo ti avevano offerto casa e lavoro, per te e la tua famiglia, perché hai voluto ritornare in questa situazione pazzesca?», mi ha confidato: «Sono arrivato in Italia che ero un bambino, sono tornato in Sierra Leone che sono un uomo. Avevo sempre detto a padre Berton che il nostro movimento doveva fare ancora un passo, ma non capivo di cosa si trattasse. In Italia, incontrando Cl, ho visto cosa ci mancava: la consapevolezza che Gesù è la felicità della vita, che il movimento è la strada per questa familiarità con Gesù. Dopo aver fatto questa scoperta non potevo non tornare: sono l’unico che ha visto, e solo attraverso me i miei amici potranno incontrare quello che ho incontrato io. Ho solo bisogno di capire di più che cosa Dio si aspetta da me, avendo deciso di farmi incontrare prima padre Berton e poi Cl. So però da dove partire: la fedeltà a mia moglie Margareth e a mio figlio sarà la prima grande testimonianza della mia fedeltà a ciascuno di voi. Altrimenti il movimento rischia di diventare soltanto una possibilità per “cercare fortuna”, e questo col tempo ci dividerebbe. E poi voglio cominciare a fare scuola di comunità con alcuni ragazzi della scuola superiore che con l’aiuto dell’Avsi abbiamo in animo di costruire qui nel ghetto di Freetown».
Torneremo in Sierra Leone l’inverno prossimo, e ci andremo con i nostri quattro figli, perché possano godere con noi di questo Avvenimento straordinario. Ne hanno diritto.